Rekombinant
Data: 12.03.2005
Argomento: Lavoro Cognitivo
'Non abbiamo futuro perchè il nostro presente è troppo volatile. La sola possibilità che ci rimane è la gestione del rischio. La trottola degli scenari dell'attimo presente.'
(W. Gibson: Pattern recognition, tr. It. L'accademia dei sogni)
Nel febbraio 2003 il giornalista americano Bob Herbert pubblicò sul New York Times i risultati di una indagine conoscitiva su un campione di centinaia di giovani disoccupati di Chicago: nessuno dei suoi intervistati si aspettava di trovare lavoro nei prossimi anni, nessuno di loro si aspettava di potersi ribellare, o di poter avviare un grande cambiamento collettivo. Il senso generale delle interviste era un sentimento di impotenza profonda. La percezione del declino non appariva focalizzata sulla politica, ma su cause più profonde, sullo scenario di un'involuzione psichica e sociale che sembra cancellare ogni possibilità di costruire alternativa.
La frammentazione del tempo presente si rovescia nell'implosione del futuro.
Ne L'uomo flessibile Richard Sennett reagisce a questa condizione esistenziale di precarietà e frammentazione con la nostalgia di un'epoca passata in cui la vita si strutturava intorno a ruoli sociali relativamente stabili, e il tempo aveva una consistenza lineare sufficiente a costruire percorsi di identità. "La freccia del tempo si è spezzata: in una economia continuamente ristrutturata che odia le routine e si basa sul breve termine non esistono più traiettorie definite. La gente sente la mancanza di rapporti umani stabili e di obiettivi a lungo termine."(Richard Sennett: L'uomo flessibile, p 99).
Ma questa nostalgia non ha nessuna presa sulla realtà presente, e i tentativi di riattivazione della comunità rimangono artificiosi e sterili.
Angela Metropoulos, nel saggio "Precari-us?"
(http://www.metamute.com/look/article.tpl?IdLanguage=1&IdPublication=1&NrIssue=29&NrSection=10&NrArticle=1470)
osserva che quella di precariato è una nozione precaria. Questo perché definisce il suo oggetto in modo approssimativo, ma anche perché da questa nozione derivano strategie paradossali, autocontraddittorie, insomma precarie. Se la nostra attenzione critica si concentra sul carattere precario della prestazione lavorativa quale sarebbe l'obiettivo che ci proponiamo? Quello di un rapporto di lavoro fisso, garantito per tutta la vita? Naturalmente no, si trattarebbe di una regressione culturale e che porrebbe il lavoro in posizione definitivamente subalterna. Qualcuno comincia a parlare di Flexicurity per intendere forme di reddito indipendenti dalla prestazione lavorativa. Ma siamo ancora lontani dall'avere una strategia di ricomposizione sociale del movimento del lavoro per sottrarsi allo sfruttamento illimitato.
Dobbiamo riprendere il filo dell'analisi della composizione e decomposizione sociale se vogliamo intravvedere linee possibili di un processo di ricomposizione a venire.
Negli anni Settanta, la crisi energetica, la conseguente recessione economica e infine la sostituzione di lavoro con macchine a controllo numerico provocarono la formazione di una vasta area di non garantiti. Da allora la questione della precarietà è divenuta centrale nell'analisi sociale, ma anche nelle prospettive di movimento. Si cominciò allora a proporre di lottare per forme di reddito garantito, sganciato dal lavoro per far fronte al fatto che larga parte della popolazione giovanile non aveva prospettive di impiego garantito. Da allora la situazione è mutata perché quel che appariva come una condizione marginale e temporanea è divenuta forma prevalente nei rapporti di lavoro. La precarietà non è più una caratteristica marginale e provvisoria, ma è la forma generale del rapporto di lavoro in una sfera produttiva digitalizzata reticolare e ricombinante.
Con la parola precariato si intende comunemente l'area del lavoro in cui non sono (più) definibili delle regole fisse relative al rapporto di lavoro, al salario, alla durata della giornata lavorativa. Però se andiamo a studiare il passato vediamo che queste regole hanno funzionato solo per un periodo limitato nella storia dei rapporti tra lavoro e capitale. Solo in un breve periodo nel cuore del ventesimo secolo, sotto la spinta sindacale e politica degli operai, in condizioni di (quasi) piena occupazione e grazie a un ruolo più o meno fortemente regolatore dello stato nell'economia, si sono potuti stabilire legalmente dei limiti alla naturale violenza della dinamica capitalista. I vincoli legali che in certi periodi hanno protetto la società dalla violenza del capitale sono sempre stati fondati sull'esistenza di un rapporto di forza di tipo politico e materiale (violenza operaia contro violenza del capitale). Grazie alla forza politica divenne possibile affermare dei diritti, stabilire delle regole e proteggerle in quanto diritti della persona. Venuta meno la forza politica del movimento operaio, la naturale precarietà del rapporti di lavoro capitalistico e la sua brutalità sono riemerse.
Il fenomeno nuovo non è il carattere precario della prestazione di lavoro, ma le condizioni tecniche e culturali entro le quali si precarizza l'info-lavoro. Le condizioni tecniche sono quelle della ricombinazione digitale dell'info-lavoro in rete. Le condizioni culturali sono quelle della scolarizzazione di massa e delle attese di consumo ereditate dalla società del tardo Novecento e continuamente alimentate dall'intero apparato di comunicazione pubblicitaria e mediatica.
Se analizziamo il primo aspetto, cioè le trasformazioni tecniche introdotte dalla digitalizzazione del ciclo produttivo, vediamo che il punto essenziale non è la precarizzazione del rapporto di lavoro (in fondo il lavoro è sempre stato precario), ma la dissoluzione della persona come agente dell'azione produttiva, come forza-lavoro. Dobbiamo vedere il ciberspazio della produzione globale come unimmensa distesa di tempo umano de-personalizzato.
L'info-lavoro, cioè la prestazione di tempo per l'elaborazione e la ricombinazione di segmenti di info-merce, è il punto di arrivo estremo del processo di astrazione dall'attività concreta che Marx analizza come una tendenza iscritta nel rapporto lavoro-capitale.
Il processo di astrazione del lavoro ha progressivamente ripulito la prestazione di tempo da ogni carattere di particolarità concreta, individuale. L'atomo di tempo di cui parla Marx è l'unità minima di lavoro produttivo. Ma nella produzione industriale il tempo di lavoro astratto si trovava impersonato da un portatore fisico e giuridico, incorporato in un lavoratore in carne ed ossa, con un'identità anagrafica e politica. Il capitale naturalmente non comprava la disponibilità personale, ma il tempo di cui la persona era portatrice. Ma se il capitale voleva disporre del tempo necessario per la valorizzazione, gli era indispensabile assoldare un essere umano, comprarne tutto il tempo, e quindi doveva fare i conti con le esigenze materiali e con le rivendicazioni sindacali e politiche di cui la persona era portatrice.
Quando passiamo nella sfera dell'info-lavoro non c'è più bisogno di comprare una persona, otto ore ore al giorno tutti i giorni. Il capitale non recluta più persone, ma compra pacchetti di tempo, separati dal loro portatore occasionale e intercambiabile.
Il tempo de-personalizzato diviene il vero agente del processo di valorizzazione, e il tempo de-personalizzato non ha diritti, non può rivendicare alcunché. Può soltanto rendersi disponibile oppure indisponibile, ma l'alternativa è puramente teorica, perché il corpo fisico, pur non essendo persona giuridicamente riconosciuta, deve comunque comprarsi da mangiare e pagarsi l'affitto.
Le procedure informatiche di ricombinazione di materiale semiotico hanno l'effetto di fluidificare il tempo "oggettivo" necessario a produrre le info-merci. Tutto il tempo di vita dei terminali umani è là, pulsante e disponibile, come un brain-sprawl in attesa. L'estensione del tempo è minuziosamente cellularizzata: cellule di tempo produttivo possono essere mobilitate in forma puntuale, casuale, frammentaria. La ricombinazione di questi frammenti è automaticamente realizzata dalla rete. Il telefono cellulare è lo strumento che rende possibile la connessione tra esigenze del semio-capitale e mobilitazione del lavoro vivo ciberspazializzato. Il trillo del cellulare chiama il lavoratore a riconnettere il suo tempo astratto al flusso reticolare.
Curiosa parola quella con cui identifichiamo l'ideologia prevalente nel tempo della transizione postumana allo schiavismo digitale: liberismo. La libertà è il suo mito fondatore, ma la libertà di chi? La libertà del capitale, certamente. Il capitale deve essere assolutamente libero di spaziare in ogni angolo del mondo per scovare il frammento di tempo umano disponibile ad essere sfruttato per un salario più misero. Ma il liberismo predica anche la libertà della persona. La persona giuridica è libera di esprimersi, di scegliere i suoi rappresentanti, di intraprendere sul piano economico e politico.
Molto interessante, solo che la persona è scomparsa, è rimasta là come un oggetto inerte, irrilevante e inutile. La persona è libera, certo. Ma il suo tempo è schiavo. La libertà è una finzione giuridica a cui non corrisponde nulla, nella concretezza della vita quotidiana. Se consideriamo le condizioni in cui si svolge effettivamente il lavoro della maggioranza dell'umanità proletaria e cognitaria del nostro tempo, se esaminiamo le condizioni di salario medio nel pianeta, se consideriamo la cancellazione in corso (e ormai largamente realizzata) dei passati diritti del lavoro possiamo dire, senza alcuna esagerazione retorica, che viviamo in un regime di tipo schiavistico. Il salario medio a livello planetario è a mala pena sufficiente a comprare i beni indispensabili per la stretta sopravvivenza della persona il cui tempo è al servizio del capitale. E le persone non hanno alcun diritto sul tempo di cui sono formalmente proprietarie, ma effettivamente espropriate. Quel loro tempo non gli appartiene realmente, perché è separato dall'esistenza sociale delle persone che lo mettono a disposizione del circuito ciberproduttivo ricombinante. Il tempo di lavoro è frattalizzato, cioè ridotto a frammenti minimi ricomponibili, e la frattalizzazione rende possibile per il capitale una costante ricerca delle condizioni di minimo salario.
Come ci si può opporre alla decimazione della classe operaia e alla sua de-personalizzazione sistematica, allo schiavismo che si va affermando come modo di comando sul lavoro precarizzato e de-personalizzato? E' la domanda che si pone con insistenza chiunque mantenga il senso della dignità umana. Eppure la risposta non viene fuori perché le forme di resistenza e di lotta che furono efficaci nel ventesimo secolo sembrano non avere più la capacità di diffondersi e di consolidarsi, né possono di conseguenza fermare l'assolutismo del capitale.
Un'esperienza che deriva dalle lotte operaie degli ultimi anni è questa, che le lotte dei lavoratori precarizzati non fanno ciclo. Il lavoro frattalizzato può anche puntualmente ribellarsi, ma questo non mette in moto alcuna onda di lotta. E la ragione è semplice da comprendere. Perché le lotte possano fare ciclo occorre la contiguità spaziale dei corpi del lavoro, occorre la continuità temporale esistenziale. Senza questa contiguità e questa continuità non si creano le condizioni perché i corpi cellularizzati divengano comunità. Non si può creare nessuna onda, perché i lavoratori non convivono nel tempo, e i comportamenti possono fare onda solo quando si dà una prossimità continuata nel tempo che l'info-lavoro non conosce più.